mercoledì 12 aprile 2017

Primo capitolo





1 – Il segreto di Leonardo









Lo avevano soprannominato Pierino, la peste. La cosa curiosa era che lui di nome si chiamasse davvero Piero… Piero Carrella, ovvero Pierino, ma era soltanto una semplice coincidenza. In classe - erano in quarta elementare - lui in condotta era proprio il peggiore, l’unico che sulla pagella si ritrovava sempre un bel sette, e un sette in condotta non era certo un buon voto!
Leonardo invece, fin dal primo trimestre della prima elementare, aveva sempre avuto dieci. La maestra diceva ai suoi genitori che lui era il più buono, un pò timido, ma un ottimo esempio per gli altri. Lo adorava la maestra Govoni!… la signorina Paolina Govoni. Dalla prima alla terza, volle sempre averlo seduto al primo banco, insieme a Luigi Boccoli, il primo della classe, quello che in pagella aveva sempre tutti nove e dieci.
In quarta invece, la maestra Govoni aveva deciso di metterlo in banco con Piero, il più monello, il più irrequieto, forse convinta che lo avrebbe aiutato a essere un poco più buono. Piero non stava mai fermo, lo stuzzicava, gli faceva i dispetti e Leonardo ci rimaneva male quando gli scarabocchiava un suo quaderno e gli strappava le pagine - lo faceva apposta - o gli rubava la merenda dalla cartella. Quella merenda che mamma preparava la sera, due fette di pane con la marmellata, avvolte in un sacchetto che le dava il fornaio, di colore nocciola, che lei apriva per farne un foglio di carta. Era timido, così non andava dalla maestra a fare la spia, ma rimaneva senza merenda e con un gran voglia di piangere.
Lui, Piero, era proprio un bambino viziato, figlio di ricchi, il padre era medico. Leonardo, invece, ero figlio di poveri, anche se mamma andava a insegnare vicino a Ravenna, e per questo partiva col treno ogni mattina alle cinque. Il marito la accompagnava in stazione e poi rientrava a casa, svegliava i tre figli, li aiutava a vestirsi, a prepararsi e poi li accompagnava a scuola, con la sua Cinquecento scassata. Poi, andava a lavorare anche lui.
Tante volte, a casa e nella sua solitudine, Leonardo aveva voglia di piangere. Aveva solo nove anni, ma pensava di sentirsi infelice e allora, spesso, aveva voglia di piangere. Perché? A quel tempo lui non riusciva a capirlo, ma in seguito riuscì a comprenderne il vero motivo.
All’epoca, lui era solo un bambino e agiva soltanto d’istinto, poi quando crebbe, iniziò a leggere nei propri pensieri, a interpretare i propri strani comportamenti infantili, a trovare la spiegazione di quel suo timido, naturale soffrire.
Quando Piero lo fece cadere, lui diede un colpo alla nuca, sul selciato del cortile, così forte che gli sembrò di morire.
Loro, al Collegio, erano allievi esterni, ma dopo le lezioni rimanevano a mangiare nel refettorio, dove andavano anche gli allievi interni e i seminaristi. Quei maccheroni che galleggiavano nel sugo rosso, così unto e salato, erano davvero immangiabili!… e poi, quelle cotolette fritte che sapevano di olio rancido, e quelle mele che erano dure come dei sassi!
Dopo, c’era una mezz’ora di ricreazione nel grande cortile, con quei giganteschi platani e ippocastani secolari, prima delle due ore di doposcuola, assistiti da un giovane seminarista vestito da prete.
Alcuni giocavano a pallone, altri correvano e facevano delle specie di gare, altri ancora si divertivano a prendersi a botte, a fare la lotta. Invece Leonardo se ne stava tranquillo, seduto su una di quelle panchine circolari, di ferro e mezze arrugginite, che circondavano quei grandi platani, e guardava gli altri giocare.
Era semplicemente un bambino tranquillo e riflessivo, ma i bambini agitati prendevano di mira quelli come lui, dicendo che erano solo pappe molli, femminucce, ocarotti. Al contrario, Piero non era affatto una femminuccia, e neppure un ocarotto. Aveva solo dieci anni, ma già parlava di sesso e Leonardo, ascoltandolo, diventava rosso nel volto. E più arrossiva e più lui lo prendeva in giro e rincarava la dose delle porcate che raccontava, già con malizia, già con un sottile gusto nel scandalizzare.
Piero aveva capito benissimo il perché la maestra aveva voluto Leonardo in banco con lui. Per questo non voleva dargliela vinta, non accettava quell’imposizione, e allora agiva, agiva sempre, pur di sentirsi lui superiore e, secondo il suo modo di ragionare, migliore.
Leonardo si alzò dalla panchina e si avvicinò ai compagni. Piero fece chinare
uno di loro dietro a Leonardo e poi, fingendo di parlare con lui, improvvisamente gli diede una spinta, così lui, che non si era accorto del compagno chinato, cadde di peso all’indietro, battendo fortemente il capo per terra. Rimase un attimo immobile e davvero gli sembrò di morire. Poi si rialzò, non disse nulla, non reagì con Piero, e neppure andò dal prefetto, un seminarista che accudiva i bambini, a fare la spia.
Alle quattro e mezza suonò la campanella che annunciava la fine delle due ore di doposcuola. Tutti di corsa giù per le scale e, dopo aver varcato il portone dove c’era Berto l’usciere che controllava, finalmente liberi dopo un giorno di scuola, felici, chiassosi e contenti di andare a casa a giocare.
La mamma di Piero, la moglie del dottore, era sempre lì ad aspettare il suo “bravo” bambino, piccola di statura, ma sempre avvolta in un’enorme pelliccia di visone. Gli domandava com’è andata? hai fatto il bravo? e lui rispondeva sì, mamma! e lei lo baciava.
La mamma di Giorgio Benelli, invece, era sempre molto appariscente e un pò eccentrica, con lunghi capelli neri, lisci, portati sciolti fino a mezza schiena. Vide Leonardo e gli chiese:
«Caro, vuoi venire a casa con noi?»
«No, signora, grazie!.... devo correre a prendere mia sorella, poi insieme andiamo a casa col tram».
Anche Giorgio abitava a San Ruffillo, proprio dietro al piccolo condominio in cui viveva la famiglia di Leonardo. Era una grande villa, bella e moderna, con un ampio giardino. Suo padre commerciava automobili e guadagnava un sacco di soldi. Aveva almeno trent’anni di più della mamma di Giorgio, con la quale conviveva e aveva avuto quel figlio. Lei, giovane compagna di un uomo così ricco, faceva la mantenuta e la bella vita, si vestiva alla moda, sempre così eccentrica e molto truccata, e girava con un coupé Mercedes, color verde pisello.
A Leonardo piaceva andare a casa con Giorgio, proprio perché poteva sedersi sui sedili di pelle, color panna, di quella stupenda automobile, così diversa dalla Cinquecento scassata di suo padre.
Anche Lucilla, la sorella di Leonardo, terminava il doposcuola alle quattro e mezza, dalle suore di via Palestro, molto vicino al Collegio San Luigi. Leonardo andava a prenderla e poi insieme a piedi fino a piazza Minghetti, per salire sul tram numero 13, che andava a San Ruffillo.
A quei tempi, era il 1960, era normale che due bambini di quell’età andassero
a casa da soli, non c’erano pericoli, ma occorreva tuttavia stare attenti alle macchine, ad attraversare la strada.
La sua mamma rientrava non prima delle sei e capitava che a casa non ci fosse nessuno, ma Leonardo, che aveva quasi dieci anni, aveva le chiavi nella cartella. Quando mamma arrivava, era sempre stanchissima, eppure trovava ugualmente la forza di mettersi a pulire la casa e a preparare la cena. Leonardo le dava una mano, gli piaceva farlo. A volte stirava i fazzoletti, a volte la aiutava a passare la lucidatrice sui pavimenti di marmo, e spesso la osservava in cucina mentre cucinava qualcosa di buono, perché lui voleva imparare.
Quella sera, Leonardo disse a mamma che aveva un gran mal di testa, ma non le disse che era caduto, che Piero l’aveva spinto e che aveva battuto il capo per terra. Ma poi a letto, quando suo fratello maggiore, che dormiva nel letto accanto al suo, spense la luce, lui ebbe voglia di piangere e in silenzio poi pianse.
Quante pene in quel letto, dopo che suo fratello spegneva la luce!
Lui era il maggiore, aveva quasi quattordici anni e si dava importanza, era prepotente e dava sempre lui gli ordini. Era lui che decideva quando andava spenta la luce, magari dopo aver letto almeno una trentina di pagine di un qualche libro. Lui, Adriano, leggeva moltissimo e quando spegneva la luce, era perché gli cadevano gli occhi, e così si addormentava sempre subito.
Leonardo fingeva di dormire e teneva gli occhi chiusi, ma in quel modo Adriano, convinto che stesse dormendo, a volte proseguiva la sua lettura di altre dieci pagine almeno.
Leonardo, appena era buio, li riapriva e pensava, fantasticava e sognava ad occhi aperti, ripeteva in silenzio quello che il giorno dopo avrebbe detto a Piero, oppure alla maestra o a suo padre. Però il giorno dopo tutto svaniva nel nulla e a Piero, o alla maestra, o a suo padre, non raccontava un bel niente, tenendo così dentro di sé tutta la rabbia e la sofferenza che provava ogni giorno, nel sentirsi così timido, a volte umiliato, preso in giro, comunque incompreso.

Dopo neppure due anni, Leonardo, altre cose faceva nel letto, al buio, in silenzio. Doveva essere certo che Adriano dormisse, perché se solo lui si fosse accorto di quello che stava facendo, Leonardo si sarebbe sentito talmente imbarazzato, si sarebbe così vergognato, che avrebbe preferito sprofondare nel vuoto.
Aveva solo dodici anni, ma aveva scoperto il piacere, e allora toccarsi, eccitarsi, era diventata per lui la liberazione da tutti i suoi malumori, un momento di evasione totale, un modo quasi dolce e sublime per entrare nel sonno e sognare.
Aveva scoperto quel nuovo piacere da pochi mesi e la cosa lo aveva un poco turbato, tuttavia per lui finalmente un vero piacere. E così, quando spesso accadeva durante il giorno che aveva voglia di piangere, che si sentiva solo e incompreso, riusciva a riprendersi aspettando la sera e pensando a quando, al buio nel letto, con la sua mano avrebbe iniziato a toccarsi e sarebbe riuscito a trascorrere nella sua solitudine alcuni minuti di eccitazione totale, adrenalina in aumento, fantasie erotiche strane, innocenti e al tempo stesso un poco perverse.
A nessuno poteva però raccontare quelle sue fantasie, neppure ai suoi compagni di scuola fidati, perché alcuni di loro nascondevano tra le pagine dei loro quaderni una foto, ritagliata da un rotocalco, di una qualche attrice scollata, o addirittura a seno nudo. Qualcuno di loro aveva il coraggio di dirgli "a volte, mentre guardo questa foto, mi faccio una sega".
Leonardo, invece, non se le faceva guardando una foto di una donna scollata, ma al buio, immaginando di toccare, proprio lì, un qualche suo amico, e andare su e giù con la mano fino a che non avesse goduto. Quando Leonardo si ritrovava la sua mano bagnata, si puliva sotto le lenzuola con un fazzoletto e immaginava che a bagnargli la mano fosse stato un suo amico.

Come già detto, Leonardo aveva scoperto quel nuovo piacere solo pochi mesi prima, non aveva ancora dodici anni. Era stato un uomo di quarant’anni a catapultarlo, nel breve tempo di un’ora, da un mondo infantile, fatto di giochi e poesia, al mondo del sesso, più concreto, reale, che apparteneva soltanto agli adulti.
Quell’uomo era un vicino di casa, una persona gentile, che i suoi genitori conoscevano e stimavano. Di lui si fidavano, più che convinti che fosse persona assolutamente per bene e affidabile.
Era settembre, uno degli ultimi giorni di vacanza, prima che iniziasse la scuola al primo di ottobre. Leonardo era sceso in cortile a giocare con gli altri bambini, poi aveva deciso di arrivare fin dal lattaio, in fondo alla via, per comprare dieci lire di burdigoni, caramelline di liquerizia gommose, che riproducevano animaletti o altre cose.
Quell’uomo, che si chiamava Giovanni, affacciato al balcone lo vide e gli disse:
«Ciao Leonardo… dove stai andando di bello, così tutto solo?»
«Vado fin dal lattaio a comprare dei burdigoni, ne faccio la voglia». 
«Sali sù – rispose Giovanni – ne ho un barattolo pieno, te li do volentieri... e poi, ho anche due numeri di Topolino da darti, che io li ho già letti».
Leonardo conosceva bene Giovanni. Lui spesso andava in casa da mamma a portarle frutta e verdura, che aveva in campagna, e lei gli offriva il caffè e faceva due chiacchiere volentieri con lui.
Quel pomeriggio Leonardo era solo, mamma era andata in piazza a Bologna con la sorellina Lucilla, mentre il fratello Adriano era a ripassare latino dal suo amico Rolando. Suo padre era al lavoro e non sarebbe rientrato prima delle otto di sera. Non esitò a salire in casa da Giovanni, c’era già stato tante altre volte.
«Hai voglia di vedere la TV dei ragazzi?» chiese Giovanni a Leonardo.
All’epoca, nel ’62, erano in pochi ad avere in casa un televisore. Oltre a Giovanni, giusto Giorgio Benelli l’aveva – suo padre era ricco! - racchiuso nel mobile del soggiorno da due antine scorrevoli. Per Leonardo, la sola idea di guardare qualcosa in televisione era un fatto straordinario e curioso.
Leonardo si sedette sul divano e accanto a lui si sedette Giovanni, che lentamente, con delicatezza, gli prese una mano e la appoggiò sui suoi pantaloni, proprio lì, sopra la patta che aveva i bottoni sbottonati. Poi, sempre lentamente, gliela infilò dentro, fino a che la mano di Leonardo di fatto non avesse stretto appena il suo membro, a quel punto eccitato. Poi gli chiese:
«Ti piace toccarmelo?… lo sapevi che a un uomo diventa così?»
Leonardo non era impaurito e neppure più di tanto preoccupato di quello che gli stava accadendo. Si sentì molto eccitato e provò persino uno strano piacere a toccare con la mano il pisello di Giovanni. Anche il suo aveva reagito, e poi quella cosa strana che stava accadendo era comunque qualcosa di nuovo, diverso, segreto, che gli procurava piacere. Gli rispose:
«Sì, mi piace!… anche il mio è diventato come il tuo!»
«Veramente?!… fammi sentire, posso toccartelo?»
Leonardo, in effetti, era un bambino abbastanza dotato e, malgrado avesse solo dodici anni non ancora compiuti, il suo pene era come quello di un adulto, se lui era eccitato.
«Sì, sì, puoi…. così puoi sentire che è proprio come il tuo».
Giovanni pose la sua mano sui pantaloni di Leonardo e, sbottonati i bottoni della patta, iniziò a palparlo attraverso il tessuto degli slip di cotone.
«Caspita!… sei solo un bambino, ma sento che sei messo bene!… non preoccuparti di quello che ti sta succedendo, perché è una cosa bellissima e naturale… sai, lui non serve solo per quando ti scappa pipì, ma se lo tocchi, lo palpi, lo accarezzi con dolcezza, lui ti crea un immenso piacere, è una cosa naturale, non c’è niente di male!»
Leonardo in effetti provò un immenso piacere, un’eccitazione strana che non conosceva, e poi all’improvviso una vampata, un fuoco dentro, qualcosa d’incontrollabile. Una forte vibrazione, la sensazione di non trattenere qualcosa che stava per uscire e che… non era pipì. Poi, una specie di esplosione, quasi un senso di panico, il suo primo fortissimo orgasmo, la sua prima abbondantissima eiaculazione. Un forte tremore di tutto il corpo, una scarica d’impulsi nervosi, un terremoto che non conosceva e che mai si sarebbe immaginato.
E quelle mutande, tutto a un tratto bagnate da qualcosa di viscido e di appiccicoso. Ma che cos’era? Che cosa gli era accaduto?
Giovanni lo accarezzò sulle guance, e poi sottovoce gli disse:
«Ora vai in bagno a lavarti bene con il sapone, poi rimettiti i calzoni senza le mutande... le buttiamo via, la tua mamma non deve vederle, poi appena sei a casa, mettitene un paio pulite».
Quando Leonardo ritornò dal bagno, aveva lo sguardo un pò serio, forse perché un poco si vergognava, tuttavia subito dopo accennò ad un sorriso.
«Vieni qua, che voglio spiegarti una cosa… vedi, Leonardo, non abbiamo fatto niente di male!… ogni ragazzo deve prima o poi scoprire il sesso e il piacere… certo, se i padri preparassero i figli a superare questo momento, sarebbe una buona cosa, tuttavia a te è andata così… da ora in avanti, quando sentirai la voglia di provare piacere e di estraniarti dal mondo, potrai con la tua mano toccarti fino ad arrivare a che ti accada quello che prima è accaduto… è assolutamente normale, lo fanno tutti i ragazzi del mondo!… e se poi ti piace, puoi anche farlo in compagnia di un amico e se ti va, ogni tanto puoi venire da me, potrei insegnarti a fare altre cose, che sono sicuro ti piaceranno».
«Si!… quali altre cose?»
«Leonardo, non essere troppo curioso, non c’è fretta!… una cosa alla volta!»

Poco dopo Leonardo lasciò la casa di Giovanni, assai incuriosito. Gli disse che presto sarebbe ritornato a rifare, di nascosto con lui, quelle strane cose, che alla fine gli erano così tanto piaciute.
Giovanni nel salutarlo gli disse:
«Mi raccomando, Leonardo!… quello che oggi abbiamo fatto tra noi, dovrà assolutamente rimanere un segreto, non dovrai dirlo a nessuno, neppure ai tuoi genitori!»





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